Il Museo Ilva a Bagnoli. La memoria di ferro dei caschi gialli





È stato inaugurato lo scorso ottobre, tra emozione e orgoglio, il Museo Ilva Bagnoli di Archeologia Industriale, un luogo che restituisce voce e dignità a una storia troppo spesso rimasta sospesa tra la ruggine e il silenzio. Nelle sale del Circolo Ilva, là dove per decenni si è respirato fumo e ferro, oggi si respirano ricordi: quelli di una comunità operaia che non ha mai smesso di sentirsi tale, anche quando la fabbrica ha chiuso i cancelli. L’idea di un museo dedicato alla memoria industriale di Bagnoli nasce proprio da chi quella fabbrica l’ha vissuta. Giovanni Capasso, conosciuto da tutti come “l’ultimo casco giallo”, fu l’ultimo assunto dell’Italsider nel 1986. Oggi è una delle anime del progetto.

«Puoi togliere il Casco Giallo dalla fabbrica, ma non la fabbrica dalla testa del Casco Giallo», ripete sorridendo, davanti a una teca che custodisce il suo elmetto originale, ormai consumato dal tempo. Le sue parole racchiudono il senso profondo del museo: non solo conservare oggetti e documenti, ma tramandare la memoria viva degli uomini e delle donne che hanno costruito, con le proprie mani, una parte importante dell’identità di Napoli.

Il percorso espositivo si snoda tra ambienti che da soli raccontano un secolo di storia industriale: la vetreria ottocentesca Damiano-Bournique, con le sue ampie volte in ferro e vetro; la palazzina dell’Archivio storico Ilva, scrigno di migliaia di fotografie, schede tecniche e progetti; e il capannone del Circolo canottieri, dove le antiche capriate in legno incorniciano oggi installazioni e sculture.

Tra i pezzi più suggestivi spicca la sirena aziendale, la stessa che un tempo scandiva gli orari di inizio e fine turno, rievocata durante la cerimonia di apertura come un richiamo alla memoria collettiva di Bagnoli. Accanto a essa trovano spazio le sculture siderurgiche di Giancarlo Neri, nate negli anni difficili della dismissione, quando l’arte provava a dare forma alla ferita della perdita.

Non mancano le collezioni spontanee nate dal basso, come il Fondo Capasso e gli “incagli siderurgici” raccolti da Italo Bruno tra gli scarti di laminazione: piccoli frammenti di ferro che, accostati, sembrano custodire la voce degli operai, il rumore dei macchinari, la polvere del tempo.

Il museo non è pensato come uno spazio chiuso, ma come un organismo vivo, un laboratorio permanente di memoria e partecipazione. Le sale ospitano incontri, proiezioni e laboratori per studenti, con l’obiettivo di restituire ai giovani la consapevolezza di ciò che Bagnoli è stata e di ciò che può ancora diventare. L’intento, spiegano i promotori, è quello di porre la prima pietra di un grande museo diffuso, capace di abbracciare l’intera area ex industriale e di connettere cultura, archeologia e paesaggio urbano.

Durante l’inaugurazione, la celebrazione è passata anche per la tavola. In molti hanno gustato la leggendaria “pasta e fagioli alla siderurgica”, la stessa che si serviva nella mensa dell’Italsider. Come da tradizione, la cipolla cruda di Tropea ha fatto da cucchiaio simbolico: un gesto semplice, ma carico di significato, per ricordare il legame tra i lavoratori e la loro quotidianità.

Oggi il Museo Ilva Bagnoli non è soltanto un luogo di esposizione, ma un teatro di memoria collettiva, dove le storie operaie dialogano con la città e con il mare. Tra fotografie, reperti, suoni e testimonianze, si riscopre il valore di un’eredità che non appartiene solo a chi ha lavorato in fabbrica, ma a un intero territorio.

Come scrive uno degli ex operai nel registro dei visitatori: «Abbiamo rimesso in moto la sirena, ma questa volta non chiama al lavoro. Chiama alla memoria».

E in quel suono, che riecheggia tra gli edifici storici e il vento del golfo, sembra di sentire ancora il battito profondo di Bagnoli.

 





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