Non è la guerra in sé a scandalizzare. Le guerre, da sempre, sono l’espressione ultima della violenza politica, della rottura del linguaggio, della fine della diplomazia. No, ciò che scandalizza davvero è il silenzio che la circonda. L’indifferenza calcolata. L’incapacità – o la rinuncia – di immaginare soluzioni. E così, mentre Gaza si sbriciola e il sud di Israele resta sotto assedio, ciò che si consuma davanti ai nostri occhi non è soltanto una crisi umanitaria senza precedenti: è il fallimento sistemico dell’ordine internazionale nato dopo il secondo dopoguerra.
A Gaza, ciò che si sta verificando va oltre ogni giustificazione politica o militare. Quartieri interi cancellati, ospedali colpiti, bambini sepolti sotto le macerie: non si tratta più di “danni collaterali”, ma di un’agonia collettiva che ha assunto i tratti di un crimine morale prima ancora che giuridico. La sproporzione dell’uso della forza è sotto gli occhi del mondo, e il numero delle vittime civili ha ormai raggiunto una dimensione intollerabile per ogni coscienza umana.
Da una parte un Israele ferito e isolato, che ha smarrito la lucidità strategica e si aggrappa a una superiorità militare che non è più sinonimo di deterrenza. Dall’altra, un mondo arabo frammentato e ambiguo, incapace di opporsi alla logica distruttiva di Hamas ma anche di offrire una prospettiva politica credibile ai palestinesi. E nel mezzo, il collasso della diplomazia occidentale, con un’America ondivaga e sempre più ripiegata su se stessa, e un’Europa afona, marginale, spettatrice di un dramma che non sa (e forse non vuole) decifrare.
Israele oggi è prigioniero della propria forza. Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, il più grave nella sua storia recente, il governo Netanyahu ha risposto con una violenza sproporzionata e sistematica, convinto che l’annientamento di Hamas equivalga alla restaurazione della sicurezza. Ma questa equazione, ormai, non regge più. Perché non si possono distruggere ideologie con i droni, né vincere guerre urbane con gli F-16.
Nel frattempo, decine di ostaggi israeliani restano ancora nelle mani di Hamas, vittime silenziose di un cinismo che non risparmia nemmeno le vite più innocenti. La loro sorte, troppo spesso relegata ai margini del discorso pubblico, rappresenta un’altra ferita aperta in questo conflitto senza uscita. Il loro rilascio deve essere una priorità umanitaria, non un dettaglio negoziale.
La realtà è che la deterrenza israeliana si sta sgretolando proprio mentre si manifesta in tutta la sua potenza. E dietro l’apparato bellico, emerge un vuoto politico impressionante: nessuna visione per il futuro di Gaza, nessun interlocutore palestinese riconosciuto, nessuna strategia regionale. Solo una lunga, costosa e pericolosa occupazione militare, che logora il consenso interno e isola il Paese sul piano internazionale.
Sul versante palestinese, la situazione è drammaticamente compromessa. Hamas ha scelto la via del martirio ideologico, portando un’intera popolazione al suicidio politico. Il suo cinismo è pari soltanto alla sua efficacia retorica: si nutre del dolore, lo trasforma in propaganda, e costringe Israele a reagire secondo il copione più favorevole alla propria narrazione.
Ma ciò che impressiona è l’assenza totale di leadership politica alternativa. L’Autorità Nazionale Palestinese non è solo debole: è ormai delegittimata, scollegata dal territorio e incapace di parlare a nome del proprio popolo. La Palestina, più che divisa, è acefala. E in questa decapitazione istituzionale, trova spazio l’internazionalizzazione del conflitto, che diventa sempre più terreno di scontro tra potenze esterne.
L’Iran continua a recitare la parte del grande antagonista regionale, ma la sua strategia di proiezione indiretta – attraverso Hezbollah, le milizie sciite e i gruppi armati – si rivela inefficace nel contenere la crisi o nel rafforzare la causa palestinese. La logica dell’«asse della resistenza» si basa su una mitologia rivoluzionaria che non riesce più a trasformarsi in influenza reale, e anzi rischia di innescare un conflitto più ampio, che nessuno sembra davvero preparato ad affrontare.
L’attacco coordinato da Hezbollah lungo il confine nord, così come le provocazioni yemenite nel Mar Rosso, sono più strumenti di pressione simbolica che vere opzioni strategiche. Nessuno degli attori regionali vuole davvero la guerra, ma tutti sono disposti a flirtare col disastro per restare rilevanti.
Il vuoto lasciato dagli Stati Uniti è sempre più evidente. Washington alterna dichiarazioni concilianti ad appoggi militari incondizionati, incapace di distinguere tra alleanza e complicità. La Casa Bianca sembra prigioniera delle proprie contraddizioni: legata a Israele da una storia di fedeltà strategica, ma consapevole che l’attuale gestione del conflitto è un boomerang diplomatico di proporzioni globali.
L’Europa, dal canto suo, non c’è. E quando c’è, è irrilevante. I suoi leader si limitano a commentare, ad auspicare, a finanziare aiuti umanitari senza sporcarsi le mani con la politica vera. Ma la diplomazia, per essere efficace, ha bisogno di credibilità. E l’Unione Europea, oggi, non ha né l’una né l’altra.
L’unico vero attore che sembra aver intuito lo spazio lasciato libero è la Cina. Nelle ultime ore, Pechino ha rilanciato l’idea di una conferenza internazionale sul Medio Oriente, avanzando la propria candidatura a mediatore globale. Non si tratta di un gesto altruista, ma di una mossa precisa nel disegno della nuova geopolitica multipolare. Eppure, che piaccia o no, potrebbe essere proprio la Cina a riaprire lo spazio per una diplomazia inclusiva, laddove l’Occidente ha preferito il silenzio o la complicità.
In questo contesto di cinismo e disillusione, le parole della Chiesa risuonano con una forza inattesa. Papa Leone XIV, parlando con una fermezza profetica, ha denunciato “l’idolatria della forza” e ha invocato una pace giusta, non imposta ma costruita nel dialogo tra i popoli: «In un mondo diviso e ferito dall’odio e dalla guerra siamo chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace! È sempre più preoccupante e dolorosa la situazione nella Striscia di Gaza. Rinnovo il mio appello accorato a consentire l’ingresso di dignitosi aiuti umanitari e porre fine alle ostilità, il cui prezzo straziante è pagato dai bambini, dagli anziani e dalle persone malate». Parole che non sono retorica, ma denuncia. Il Patriarca Pizzaballa, da Gerusalemme, ha chiesto di non rassegnarsi al conflitto come destino, rifiutando l’idea che la convivenza sia ormai un’utopia.
È forse proprio la Chiesa, oggi, a rappresentare uno degli ultimi spazi di mediazione autentica. Non per ambizioni politiche, ma per vocazione universale. Non per offrire soluzioni tecniche, ma per ricordare che la dignità umana – da entrambe le parti – viene prima di ogni frontiera.
Quale soluzione, davvero? Qualcuno dirà che è troppo tardi. Che l’odio ha scavato solchi troppo profondi. Ma la diplomazia nasce proprio quando tutto sembra perduto. Un primo passo è possibile: cessate il fuoco immediato, corridoi umanitari, liberazione degli ostaggi, e una roadmap internazionale che preveda la presenza di una forza di interposizione sotto egida Onu o araba. Poi, l’apertura a un nuovo dialogo israelo-palestinese, fondato non più su illusioni bilaterali, ma su un sistema multilaterale rinnovato, inclusivo anche di Cina e potenze regionali.
Non sarà facile. Ma se la politica vuole ritrovare sé stessa, dovrà passare di nuovo da Gerusalemme. Perché chi governa il destino della Terra Santa governa, in fondo, l’anima stessa del mondo.
Doriano Vincenzo De Luca